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Pubblicazioni Archeoclub
Quando a Cupra si pescava il Capitone
memorie locali
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Germano Viteli
INTRODUZIONE
L’idea del presente libretto nasce a seguito di una serie di interviste fatte con Vermiglio Ricci per il locale Archeoclub ai marittimi di Cupra, in occasione della collaborazione ad una ricerca demo-antropologica svolta dal professor Mario Polia sul territorio provinciale piceno inerente specifici aspetti delle memorie rurali e marinare. Per una straordinaria casuale coincidenza ci pervenne un inedito filmato amatoriale sulla pesca delle anguille che Franco Biocca agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso aveva girato a Cupra Marittima, documentando un’attività stagionale della propria famiglia che data la peculiarità, a livello professionale era estesa a poche altre. Si tratta di una testimonianza unica nel suo genere sia per il particolare tipo di pesca praticata con il cucullo, sia perché i pochi decenni trascorsi da allora, sebbene fino agli anni ’70 quando le anguille erano ancora numerose in molti esercitavano la pesca amatoriale con la canna (Fig. 1), ne hanno eclissato la memoria, congiuntamente alla radicata tradizione di consumare il capitone nel giorno della Vigilia di Natale. Dalle memorie raccolte, benché limitate a poche ma significative testimonianze, riemergono brani di un’etica schietta, umana e solidale, pennellate della vita di borgo, aspetti domestici, tecniche marinare, frammenti di quel sapere atavico che più spesso sostituiva, altre volte affiancava o anticipava conoscenze scientifiche ufficiali. Penso al racconto dei fratelli Illuminati sul sangue di anguilla impiegato come antidoto all’ubriachezza. Il sangue dell’anguilla contiene un principio altamente tossico ad azione emolitica (distrugge i globuli rossi) ma termolabile (si annulla con la cottura) che esperimenti di laboratorio dimostrerebbero poter neutralizzare il veleno delle vipere. Oppure a quanto scrive Luigi Michele Vinci in una lettera da Boccabianca del 20 aprile 1927 a proposito delle vitamine contenute nei “bonissimi asparagi da campo” e nelle anguille: “Ho saputo qui che le anguille hanno moltissima vitamina. Beate loro! cioè beato chi le mangia!” O ancora a quanto riferisce Ottavio Angelici, secondo cui le
anguille si diffondono nelle acque dolci anche attraverso polle carsiche. Ebbene, nel 2001 nelle Grotte di Frasassi furono scoperte nuove grandi sale e laghi profondi all’interno di alcuni dei quali si rinvennero un gran numero di resti subfossili di anguille lunghe fino a 70 cm (Fig. 2), aderenti alle scoscese pareti rocciose fino a un’altezza di 5 metri sopra il livello della falda acquifera. In base alla loro morfologia si è stabilito che sono anguille europee penetrate in tempi diversi nella grotta durante gli ultimi 8.000 anni, probabilmente attraverso fessure o passaggi comunicanti con il fiume Sentino e, senza trovare la via d’uscita si sarebbero adattate a vivere nei laghi ipogei per un certo periodo di tempo, cibandosi di organismi endemici della grotta e di mucillagini. Le anguille campionate in alto hanno una datazione più antica rispetto alle sottostanti perché il livello dell’acqua è sceso nei secoli; si è supposto che dopo la morte i gas di decomposizione abbiano portato a galla le anguille che presentano la testa in giù, finite poi contro le sponde del lago sotterraneo, aderendovi . Altri fossili del genere Anguilla sono stati rinvenuti nel monte Bolca presso Verona, altri in Provenza, nella Baviera, ecc.
A livello professionale, le anguille potevano essere pescate in vari modi. Significativa a tale riguardo la testimonianza relativa a San Benedetto del Tronto di Nicola Romani, che afferma il procedimento in voga presso quella marineria, attuato con il sistema del palancàro. Nelle Marche, per la maggiore, le anguille si pescavano con il cucullo (detto anche cocollo, cogollo, cucùl, a seconda delle località), un “ordigno” “sicuramente introdotto dalle lagune venete (questo strumentario in veneto veniva detto cogòi, cogoléti) e documentato nella pesca costiera dei litorali, di cui si hanno precise informazioni già in età medievale con l’emanazione di regolamenti circa l’uso. Se ne ha menzione a Venezia nel 1314 e ancora nel corso del XV secolo a Chioggia, dove si fa riferimento anche alle “maglie delle rete” che erano state fissate nella loro grandezza ad un prototipo omologato nel 1425 per evitare inutili stragi di novellame. La tecnica viene sicuramente introdotta nei porti di sottovento dai pescatori veneti e di cogolli si parla anche negli statuti di Ancona” . Va detto però che la pesca locale, ove presente, spesso non sopperiva interamente alla domanda specie nelle città maggiori, e il principale centro di approvvigionamento rimaneva Comacchio, dove nei tempi passati le imbarcazioni dei negoziatori dovevano recarsi con grande dispendio e rischio di perdere la partita acquistata. Infatti, occorrevano innanzitutto diversi uomini per manovrare la barca, che non di rado si trovavano ad attendere anche settimane le condizioni meteorologiche favorevoli per trasportare le anguille vive, trainate a rimorchio dell’imbarcazione entro una sorta di navicella chiusa ma disseminata di buchi, i quali permettevano l’ingresso dell’acqua marina necessaria a mantenere in vita le anguille; il burchio, come si chiamava, capace di contenere da qualche migliaio fino a 7.000 anguille, in presenza di venti o correnti marine poteva sprofondare o disperdersi nella burrasca e con esso il carico, con disgrazia dell’appaltatore. Ogni barca poteva trainarne alla corda uno soltanto e una volta giunto a destinazione veniva stazionato nelle acque di mare, potendovi all’occorrenza, attraverso una finestrella richiudibile, prelevare le anguille . I burchi erano utilizzati anche dai pescatori locali di anguille che li ponevano solitamente in prossimità delle foci dei fiumi o nei piccoli stagni costieri salmastri ora bonificati. Il filmato e le interviste ai marittimi di Cupra pongono in evidenza una particolarità legata ad una peculiare attività agronomica del territorio, la coltivazione di agrumi, per i quali si rendeva necessaria la presenza di capienti vasche adibite all’irrigazione, localmente impiegate anche nello stoccaggio temporaneo delle anguille vive in sostituzione dei burchi. Il cucullo è un ingegno che viene posto vicino alla riva e utilizzato principalmente per la cattura delle anguille. È costituito dal una sguangia, la rete anteriore posta perpendicolarmente alla costa che ostruisce il passaggio del pesce e lo costringe a dirigersi verso il sacco, preceduto frontalmente da un ampio imbocco rettangolare in metallo, all’interno del quale un sistema di inganni impedisce l’uscita delle anguille. Il termine cucullo deriva dal latino cucŭllum, un ampio cappuccio in lana spesso unito all’abito portato dagli antichi romani che svolgevano lavori all’aperto, in età cristiana adottato dai monaci; è anche una particolare rete usata per catturare le quaglie (Fig. 3). Nella vicina Romagna fino agli anni ‘50 del ‘900 le squadre di cugullanti che da Bellaria si recavano nei mesi autunnali alle foci del Reno e del Po per pescare le anguille, rimanevano lontani da casa per un paio di mesi circa e si riparavano in capanne che si costruivano con la brujòina, un tipo di canna che cresce sulle dune. Le anguille pescate, poi, venivano conservate vive nelle marotte, l’equivalente dei burchi come si evince dalla seguente testimonianza: “Mio babbo faceva la piccola pesca, si chiamava ‘mestiere di terra’ perché si faceva a riva. Io e mia mamma tenevamo la corda della rete a riva e lui sulla barca in mare urlava ‘Tira!! Tira!!’, ma io ero una bambina e non avevo molta forza. In ottobre e novembre c’era il passaggio delle anguille e si mettevano giù i cugulli, le reti per pescarle (Fig. 4). C’era un vecchio che, ogni volta che gli si chiedeva cosa avesse pescato, rispondeva: ‘ò pischè 2 o 3 buratél che i è piò znin di vermi de cul’ (ho pescato 2 o 3 anguille che sono più piccole dei vermi intestinali)”. “L’anguilla sta bene dappertutto; è buona sia sulla griglia che nel brodetto perché fa il brodo denso. I nostri vecchi si riunivano ‘in compagnie’ e andavano a pescarle verso Ravenna e Porto Garibaldi. Stavano fuori casa accampati da settembre a metà dicembre; rientravano poco prima di Natale mantenendo le anguille vive nelle marotte (cassette chiuse e forate che venivano immerse nell’acqua del fiume). Solitamente venivano mangiate la vigilia di Natale, guai se non si rispettava la tradizione” .
Oltre alle anguille, a Cupra, sulla foce del Menocchia con fiocina e canna si pescavano anche i gronchi (Fig. 5), simili a queste ma di genere diverso (Conger) e abitudini affini a quelle delle murene, trovandosi in mare e preferibilmente tra gli scogli e i relitti. Il capitone, infine, è la femmina dell’anguilla allo stadio adulto, notevolmente più grande del maschio.

1- Archivio di Stato di Fermo, Fondo Vinci.
2- Le notizie sono tratte da Alessandro Montanari, a cura di, Stigobionti. Vita acquatica nelle Grotte di Frasassi, Federazione Speleologica Marchigiana, Anniballi Grafiche, 2010.
3- Si ringrazia Maria Lucia De Nicolò per le notizie storiche fornite.
4- Si veda Ennio Panfili, L’industria della pesca nel litorale marchigiano nel Settecento con particolare riferimento ai centri di Fermo e di Ancona, tesi di Laurea, Università degli studi di Perugia, Facoltà di Economia e Commercio, A.A. 1965/66, pp. 59-65.
5- Si vedano i Dizionari della lingua italiana Sabatini-Coletti e De Mauro, voce “cucullo”.
6- Da AA. VV., Purazi… Doni!, Rimini, Panozzo Editore, 2005, pp. 119 e 121.


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