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Pubblicazioni Archeoclub
Cupra nell’anima…
l’anima di Cupra
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Carla Costanzi
Cupra oltre il buio
Per far trascorrere il tempo senza scopo, passeggiavo sul lungotevere all’altezza della Sinagoga, là dove l’ansa del fiume si accentua per la presenza dell’isola – l’unica della città – che si erge nel suo bel mezzo. I passi seguivano senza ritmo il flusso dei pensieri che si affacciavano alla mente svuotata, capace di ritenere solo il nulla. Il ritrovarsi smarriti stimola la fuga, ma l’angoscia nasce proprio dal non sapere dove andare. Pure, avevo estremo bisogno di allontanarmi da quel dolore paralizzante. Davanti a me solo lo specchio d’acqua, acceso di rosso dal tramonto, dove i platani riflettevano il tondeggiare delle fronde. Nel primo tratto del ponte un venditore ambulante aveva steso un drappo colorato sul quale, con cura meticolosa, aveva deposto in bell’ordine i cd degli ultimi successi. Un radioregistratore, rattoppato in più parti con il nastro adesivo nero, diffondeva un brano di quell’estate: “Ti avrò”, cantata da Adriano Celentano.
Estate…
Per anni – tanti anni – era stata la stagione da me più amata, non solo perché coincideva con il periodo delle vacanze, ma soprattutto per il suo essere sinonimo di felicità, di vita libera. Un solo nome a riassumere tutto ciò: Cupra. Questo paese delle Marche mi ha accolto che ero ancora in fasce per diventare poi, per me, uno dei miei “luoghi dell’anima”.
L’anima è fragilità, è un sussurro che si perde nel tempo, qualcosa da salvaguardare dalle asperità del mondo e che trova la sua dimensione ideale soltanto nella quiete del ricordo. Per le memorie della giovinezza e il conforto che ne deriva, alcuni luoghi possono diventare l’asilo in cui amiamo rifugiarci, stremati dalle difficoltà presenti, per trovare un sia pur effimero sollievo. L’anima conserva vivide sensazioni visive, uditive e olfattive che riemergono nei momenti più difficili, facendoci sentire protetti come in un nido. Un nido che, nonostante l’età adulta, può ospitarci quando ci sentiamo più vulnerabili. E quando, affacciati su un dirupo, ci adoperiamo per far risuonare la nostra eco nell’aria, la melodia che abbiamo dentro ci aiuta a non perdere mai l’equilibrio.
È difficile dire quale sia l’elemento che rende certi luoghi tanto speciali. Molto più facile dire che in essi - e soprattutto negli attimi che sanno evocare – possiamo adagiarci, trovando ristoro anche nei momenti più cupi (e quello era un momento buio, vischioso come la pece, che bruciava). Luoghi e attimi da venerare perché hanno inciso fortemente sulla nostra sensibilità: come un antico maniero che ci ha preceduti e forse ci sopravviverà, costituiscono un portale attraverso il tempo, sia passato sia ancora a venire. Lì dentro troviamo paesaggi, persone, colori e profumi ancora intatti, e se a volte sono difficili da evocare è sufficiente un piccolo richiamo per farceli riapparire davanti agli occhi e placarci, per ricordarci chi eravamo e chi siamo oggi. Essi ci dicono che lì, proprio lì, è passato un qualcuno che poi è diventato “io”.
Era in me, fortissima, l’esigenza di svuotare la mia mente per riattivarne gli occhi interiori, i soli capaci di cogliere l’invisibile, la forma originaria delle cose e delle emozioni, il significato di fondo di cui sono intessute. Volevo penetrare un vuoto dove poter capire il mio stare al mondo, sperimentare fecondi tragitti interiori, scandagliare le profondità dell’io per attingere energie esistenziali alternative a quelle che mi avevano alimentato fino ad allora ma purtroppo ormai isterilite: aspettavo che il desiderio risvegliasse quel torpore e spezzasse il rivestimento soffocante che mi avvolgeva tutta, come una benda.
I riflessi sul fiume erano scomparsi nella sera e il vento si era di colpo placato quando mi si affacciò per la seconda volta l’immagine di Cupra. Era lì che avevo sempre provato, quasi senza motivo apparente, un’inspiegabile sensazione di familiarità, pace e – anche se ciò può apparire a tutta prima incomprensibile – “conoscenza”. Cupra negli anni si racconta (e, se la si guarda da un’ottica puramente esterna, è stata raccontata) presso che nella stessa maniera. Non è un caso se a tutt’oggi mantiene immutate alcune sue caratteristiche, ancora vive nel potere evocativo che suscita in chi le si rapporta. La sua anima si esprime con un linguaggio riconoscibile da chiunque: eppure, incrociandosi con le vite di chi l’attraversa, ciascuno ritrova una propria impronta unica e irripetibile. Ciò si verifica ogni volta che si entra in sintonia con l’anima di un luogo. Esso diventa allora una parte della nostra anima, cui possiamo volgerci con il pensiero quando vogliamo dare alimento alle nostre energie spossate o nel quale possiamo tornare in momenti difficili, sperando che il nostro luogo sacro ci dispensi chiarezza e guarigione. Capii così che solo Cupra poteva lenire quel dolore che non mi abbandonava mai, che aderiva al mio corpo come una seconda pelle. Cupra mi avrebbe accolto senza chiedermi spiegazioni, aiutandomi a ritrovare alcuni segni consolatori, e forse da lì avrei ritrovato il coraggio di ripartire verso un futuro costruttivo.
Di ritorno a casa chiamai subito l’albergo Flammini, l’ultima dimora cuprense dove avevo soggiornato; chiesi la disponibilità di una stanza doppia per me e la mia piccola Valeria per un soggiorno di almeno quindici giorni ed attesi senza respiro fino a quando arrivò la conferma.
Già il solo preparare i bagagli mi fece tornare alla mente le vecchie “smanie per la villeggiatura” di lontana memoria. Andare in vacanza a Cupra presupponeva una procedura scrupolosa e complessa cui attenersi nell’approntare i bagagli. Con attenzione maniacale si sceglievano i costumi da bagno, i prendisole, i pantaloni alla pescatora per le passeggiate pomeridiane, nonché – beninteso – le “mises” per andare a ballare a La Sirenella. Quella volta però non avevo proprio voglia di indugiare in simili preparativi e fu sufficiente poco tempo per organizzare appena il necessario per me e mia figlia.
Decisi di percorrere la vecchia Salaria piuttosto che la nuova autostrada Roma-L’Aquila; partivo per un viaggio iniziatico, a ritroso nel tempo. Negli anni ’50 si arrivava a Cupra solo per ferrovia o con il pullman che partiva da Roma in viale di Castro Pretorio ed effettuava una prima sosta a Rieti, per continuare – dopo aver attraversato l’Appennino – fino ad Ascoli; e quando a Porto d’Ascoli appariva il mare, venivo già colta da una gioiosa eccitazione.
Cupra entrò nella mia vita molti anni prima che io nascessi. Erano passati tanti altri prima di me per questa piccola perla dell’Adriatico. La bisnonna Marietta, umbra di nascita e romana di adozione, intorno agli anni ’30 voleva addirittura acquistarvi un villino sul lungomare per farne una pensione. Un progetto “imprenditoriale” che naufragò sul nascere, ma che dette alla sua famiglia – soprattutto alla figlia Augusta, sorella di mio nonno Giulio – l’opportunità di conoscere Cupra, paese vivo ed arcaico ad un tempo, semplice e ridente, di cui la zia Augusta si innamorò perdutamente e che legittimò per scelta come suo secondo paese natale. Dopo aver iniziato a frequentare Cupra nei primi anni ’30, nel ’38 la zia invitò mia madre a trascorrervi la sua prima vacanza marina nel villino che si locava dai Romagnoli, sul lungomare. All’epoca era un privilegio permettersi la cosiddetta “villeggiatura”, e mia madre – allora appena adolescente – raccontava anche lei, con coloriture accese, l’atmosfera che si respirava nella cittadina.
In quegli anni la moda del costume da bagno era in totale evoluzione. Non occorre molta fantasia per immaginare che chi si avventurava in mare con un costume di cotone emergeva dalle acque evidenziando imbarazzanti trasparenze assai poco rispettose del pudore. Mia madre, come altre bagnanti, indossava costumi da bagno di lana, che malgrado la loro connotazione invernale e qualche disagio per il prurito che arrecavano, avevano un maggiore potere coprente. Quando si bagnavano, però cominciavano a perdere forma e allora bisognava correre a cambiarsi. Di solito si ricorreva a un prendisole, ossia un mini abito in cotone fiorato con un gonnellino a pieghe (o arricciato alla vita) e dotato di una o due bretelle. La bretella unica, che passava dietro il collo, era ritenuta molto sexy.




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